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PARADISO PER ESCURSIONISTI
 
 
 
 
 

 
 
presentazione

Il bellinzonese Carlo Taddei, mineralogo e guida alpina, era un uomo, almeno apparentemente, rude e schivo, ma, quando scorgeva il Tremorgio, il suo Tremorgio, si scioglieva tutto e, lasciata la piccozza, prendeva la penna, dimostrandosi poeta. Egli definì, quindi, il Tremorgio “perla di lago alpino, che pare uno zaffiro incastonato tra una severa conca di monti”. Il Taddei, che aveva paura dell’acqua, vi andava persino in barchetta “mentre la luna rendeva argentei i veli della spumeggiante cascata”; a volte, tratteneva “il respiro per veder dischiudersi fra le due onde, che inseguivano, qualche fata come nei laghetti del Trentino, ove si specchiano le pallide Dolomiti”.

Quando il Taddei la percorreva in barchetta, tra i larici che “avevano ombre piene di mistero”, l’acqua del Tremorgio occupava una ben più vasta superficie; essa cominciò poi a sempre più diminuire e tuttora si cerca di scoprire dove vada mai a finire; e c’è chi, notando questo continuo calo, documentato anche dalle fotografie d’epoca, ricorda la leggenda di Tremor, luogotenente di Carlo Magno. La leggenda narra che Tremor, che aveva il suo castello sullo sperone roccioso del Tremorgio, doveva sempre lottar contro la Befana, che gli giocò, alla fine, un perfido tiro: Tremor sposò un’affascinante principessa, ma s’accorse, un giorno, scorgendo che al posto dei piedi aveva le zampe d’oca, che la giovane moglie non era che l’odiata Befana e allora questa, vistasi scoperta, scatenò un terremoto, alla cui fine apparve, al posto del castello di Tremor, una voragine piena d’acqua azzurra, così profonda che si dedusse fosse collegata con l’inferno. Attorno al lago, già cresceva, intanto, l’Aquilegia alpina, con la “corolla sormontata dalla corona ducale a cinque punte”: la Befana aveva mutato in fiore il luogotenente di Carlo Magno.

Un posto, quindi, il Tremorgio, di poesia e di leggende e anche un po’ di fantascienza: secondo alcuni geologi, tra cui il Bächtiger del Politecnico federale di Zurigo, le rocce che circondano il laghetto hanno caratteristiche di deformazione tali da far ritenere che esse siano state colpite da un meteorite di “una diecina di metri di diametro”; il Tremorgio, in poche parole, sarebbe stato scavato dall’impatto di un corpo celeste. Visto dall’altro, il laghetto rammenta un po’ un vulcano o, almeno, l’”imbuto” di cui parla il Lavizzari, che lo paragona a una “tramoggia, il che forse gli valse il nome”. Il naturalista ne trovò “fosche” le acque: il Tremorgio tende, invero, al cupo e, solo quando la luce si fa pomeridiana, assume una tinta inaspettatamente calda, che gli dà un certo che di tropicale, ammorbidendone maggiormente le rive, sulle quali, ritiratasi l’acqua, comincia a spuntare, fiduciosa, l’erba.

L’erba diventa, poi, una presenza che colora la gita quando si giunge nella vasta piana dell’Alpe Campolungo, con il fiume che sembra appena posato (scorre, piatto, con una limpidissima lentezza silenziosa); anche le mucche danno l’impressione di essere state appena messe sul pascolo, che le trasforma, tanto è grande, in modellini di legno dipinto.
Ma poi il pascolo si fa roccia e il paesaggio, di colpo, obbedisce agli ordini rigorosamente montani del Pizzo Prèvat, che l’ombra rende ancora più liscio (spicca, a destra del picco, una macchia bianca: come se la pioggia avesse, qui, più a lungo insistito con i suoi violenti rovesci; ancora più a destra, la roccia sale, o discende, a strati tinteggiati e si sente, guardandola, tutto il peso della storia della terra)…

 
 

 
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